zvanì

di DANILO COPPE – Come già preannunciato nel numero scorso, infischiandomene del titolo di questa rubrica, ho deciso di parlare di Giovannino Guareschi. Questo pezzo ho iniziato a scriverlo lunedì scorso, quando era il quarantacinquesimo anniversario della sua morte, occorsa appunto il 22 luglio 1968.

Dov’è l’aspetto criminologico della questione? Semplice: sono stati criminali l’indifferenza, l’ostilità, l’oblio, la sufficienza, l’ingratitudine che hanno accompagnato la vita e la morte del grande scrittore di Fontanelle. L’opera di Guareschi, ma soprattutto il suo insegnamento umano e professionale, sono alla base di un contesto storico di straordinaria attualità. Ho avuto modo in più di un’occasione di considerare, personalmente, il ’68 come l’inizio della fine. Soprattutto la fine della meritocrazia. Il prevalere degli interessi politici e partitici su gran parte delle scelte nelle risorse umane e nelle strategie per la conduzione della cosa pubblica. Che in quegli anni, la moda del sei politico nelle scuole superiori e del diciotto politico alle università abbia comportato una generazione di immeritevoli può essere una coincidenza. Tuttavia, è innegabile che il boom degli anni ’60 volgeva alla fine e l’Italia si è letteralmente seduta sugli allori di piante ritenute erroneamente solide e sempre verdi. In realtà la fine di quel decennio si è abbinata agli inizi degli anni’70, ossia quel periodo ricordato anche come gli anni dell’austerity. Il pretesto della crisi furono i consumi energetici legati alla crisi internazionale del petrolio. Ma fu l’occasione in cui si ebbe un campanello di allarme bellamente ignorato. La dipendenza petrolifera doveva servire, secondo me, come cartina tornasole di una “inconsistenza” strutturale che solo grazie all’intraprendenza della piccola e media industria italiana è stata mimetizzata per diversi decenni. Oggi (ossia da qualche anno) siamo arrivati a fare i conti col nostro passato di ex giovane nazione. La giustificazione politica che tanti Stati sono nella stessa crisi regge fino ad un certo punto. Quante nazioni possono ostentare il nostro patrimonio storico ed artistico? Quante nazioni hanno un settore agroalimentare dell’importanza del nostro? Quante nazioni hanno avuto l’inventiva tecnica applicata poi in mezzo mondo? Quante nazioni possono vantare il nostro design nel campo della moda o della meccanica? Quante nazioni hanno il numero di chilometri di coste e quindi di mari che attraggono di per sé un turismo di massa da mezza Europa? La risposta è scontata: nessuna. Abbiamo o non abbiamo, ad esempio, il più grosso giacimento petrolifero europeo proprio sotto la Basilicata? Abbiamo le Alpi che con il disciogliersi delle nevi ci potrebbe garantire 365 giorni all’anno energia idroelettrica? Quindi perché tutta questa dipendenza energetica dal resto del mondo? Sicuramente è perché ne sprechiamo troppa? Perché non siamo stati educati in tal senso? Siamo stati gli ultimi a consentire tariffe elettriche agevolate per i consumi notturni. Perché? Fino a pochi anni fa se un tizio che abitava in montagna si alimentava casa propria con una sua turbina nel suo ruscello veniva “impiccato” seduta stante. Solo da qualche anno lo Stato ricompra gli esuberi di corrente autoprodotta. Perché tutte queste inerzie? Perché abbiamo le tasse più alte d’Europa e tra i servizi pubblici peggiori? Perché tanti managers hanno fatto fallire o incasinato le aziende di Stato e nonostante ciò hanno preso liquidazioni faraoniche e pensioni di platino? Anche solo alla luce di questo scarno elenco ci si spiega perché abbiamo un deficit pauroso e affoghiamo nella crisi. A chi dare la colpa se non a chi ci amministra da oltre quarant’anni? Giovannino Guareschi aveva la vista più lunga della maggior parte dei suoi contemporanei. La sua satira pungente, puntuale, coerente e mutevole rispetto ai tempi vissuti sfuggiva alle logiche partitiche. Fu per personaggi come Guareschi che venne coniato il termine “qualunquismo”. Un volgare sotterfugio per bollare chi cercava di diffondere uno spirito critico costruttivo. Qualunquista era colui che si rifiutava di turarsi il naso come raccomandava Montanelli. E, come cantava l’immenso Giorgio Gaber, altro personaggio bollato come qualunquista, si era “diversi perché quando è merda è merda, non ha importanza la specificazioni”. Ma in un mondo di politici affaristi e lottizzatori dei media, segnalare alle folle le debolezze umane dei leaders non costituiva certo un viatico al successo, al giusto riconoscimento dei talenti. Guareschi hanno provato in tanti a farlo tacere. Ci hanno provato i nazisti, relegandolo per quasi due anni nei più sperduti e crudeli campi di concentramento. Ci hanno provato anche le nostre patrie galere, attraverso magistrati da operetta, a piegarlo. Ma lui non si è piegato e non si è spezzato, incrementando l’odio e il rancore di chi poteva aiutarlo e non lo ha fatto. In tanti hanno tirato un sospiro di sollievo quando” il Zvanì l’è mort”. Tanti giornalisti, salvo Biagi, Molossi, in parte Montanelli e pochi altri lo hanno prima di tutto “rispettato”. La sua indipendenza e il suo talento erano, per i più, una fonte di frustrazione logorante.
Pensate che nonostante l’indifferenza generale in patria, Guareschi è stato negli anni della sua vita, prima, dopo e durante la sua prigionia, lo scrittore italiano più tradotto e diffuso nel mondo. Il senso del suo messaggio avrebbe meritato tutti i riconoscimenti possibili. E non mi riferisco ovviamente ai patetici premi letterari nazionali in cui gli editori comprano le nomination. Guareschi, e lo dico senza facili piaggerie, meritava il Premio Nobel per la Letteratura, se non per la Pace. Sicuramente lo ha meritato per la forza letteraria con cui ha sostenuto i suoi compagni di prigionia nei campi di concentramento. E lo ha meritato per aver costituito uno dei più fulgidi esempi di ingiusta detenzione per voler mantenersi coerente e fiero delle proprie convinzioni. Ho già scritto su queste pagine che il mio mito, Alfred Nobel, padre della dinamite e fondatore del Premio più importante al mondo, si sarà rivoltato nella tomba diverse volte negli ultimi anni. Per un premio a Guareschi si sarebbe invece rilassato e avrebbe sorriso. Incarnava esattamente lo spirito del Premio. Vi racconterò un po’ della vita di Guareschi nei prossimi numeri di Zerosette, così capirete meglio l’uomo.

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