COPPE

di DANILO COPPE – Malato realmente di ulcera, Guareschi marcò spesso visita durante il servizio militare. Ne approfittava, ovviamente, per continuare la sua collaborazione con la Rizzoli e il Bertoldo, o scrivendo appunti destinati poi a finire nei futuri racconti. Ma, schedato come “riottoso” alle “direttive” di partito, esaurì presto tutte le opportunità di imboscarsi e, alla fine, benché sempre malato di ulcera, dovette rientrare in “servizio”. Gli toccò una caserma ad Alessandria, ma ebbe la malasorte di esservi presente la fatidica data dell’8 settembre 1943. Dopo quella data, l’Italia si spaccò in due: da una parte molti suoi commilitoni si diedero alla fuga, simulando, chi più, chi meno, la partecipazione alla guerra partigiana; dall’altra, altri effettivi si arruolarono d’ufficio o nella Repubblica Sociale Italiana o direttamente nell’esercito tedesco. Guareschi, come era nella sua natura, scelse una terza improbabile via, quella di restare fedele al Regio Esercito, ma senza schierarsi. Come lui qualche decina di migliaia di altri Italiani. Essendo il più alto in grado (tenente) ordinò alla sua guarnigione di resistere alle pressioni tedesche di arrendersi ed arruolarsi e fece sparare, in difesa della caserma, tutto quel poco che aveva a disposizione. Poi si arrese e assunse la peggior qualifica che poteva toccare ad un prigioniero: IMI ossia Internati militari italiani, anche definiti traditori badogliani o “banditen”. Una categoria non contemplata dai codici militari, per cui non tutelata dalle regole della prigionia di guerra. Nemmeno la Croce Rossa si interessava di loro. Ovviamente l’intento dei crucchi era quello di punire questi potenziali combattenti fino a convincerli a collaborare in zona di guerra. Molti lo fecero. Giovannino, manco a dirlo, resistette fino alla fine della guerra. Quasi due anni. Come lui, migliaia di altri Italiani vennero deportati nei campi di concentramento, nelle condizioni di vita peggiori a cui si possa pensare. Dopo gli Ebrei, quella di Guareschi era la seconda tipologia di “feccia” agli occhi dei Tedeschi. Sconcertante pensare che, nella stessa area, convivevano, separati dal filo spinato, gli IMI e i POW (prigionieri di guerra), con questi ultimi che disponevano di maggiori risorse alimentari, visite della Croce Rossa, posta, ecc. Fu in mezzo alle peggiori vessazioni, al freddo, alla fame ed alla disumanità assoluta che Guareschi coniò la frase che divenne presto un “tormentone” diffuso e digrignato fra i denti, da tutti i suoi compagni di sventura: NON MUOIO NEANCHE SE MI AMMAZZANO. E così, come testimoniato da diversi superstiti di quel supplizio, Giovannino si prodigò per sé e per gli altri a tenere alto il morale, inventando finte trasmissioni radiofoniche satiriche, recite, bollettini locali, ecc. Il risultato della sua opera fu di essere nuovamente “schedato” come sobillatore e quindi trasferito periodicamente in altri campi, sempre più isolati, sempre più duri. Ma cambiando le condizioni di vita, lo spirito restava comunque inalterato, oppresso solo dall’angoscia di non avere notizie di Ennia, diventata sua moglie quasi clandestinamente nel 1937 e della sua secondogenita Carlotta, ancora non vista. Scriverà mille appunti, durante quei terribili anni. Dopo averli portati in salvo a prezzo di immani difficoltà sarà lui stesso a distruggerne gran parte, quasi a voler cercare di cancellare ogni riferimento alla disumanità di cui era stato reso partecipe. Scriverà un diario nel 1949, il Diario Clandestino. Ma non utilizzerà gli appunti descriventi la sua vita da prigioniero. Troppo facile. Anche perché come scriverà nella toccante prefazione, dopo quasi cinque anni, le follie della guerra non erano chiare per niente: (…) la gente sta ancora litigando per mettersi d’accordo su chi ha vinto e su chi ha perso, su chi aveva torto e su chi aveva ragione. Su chi erano gli alleati e su chi erano invece i nemici. Ci furono dei nemici, infatti, che si trovarono improvvisamente alleati, degli alleati che si trovarono nemici. E, alla parte esterna, si aggiunse la parte politica interna e la annessa guerra civile che fecero schierare i padri contro i figli, le mogli contro i mariti, il nord contro il sud, l’est contro l’ovest, tanto che lo storico obiettivo che voglia effettivamente fare della storia onesta dovrebbe limitarsi a scrivere che in un mondo di pazzi, i più pazzi furono vinti dai più pazzi.(…)Io, insomma, come milioni e milioni di persone come me, migliori di me e peggiori di me, mi trovai invischiato in questa guerra in qualità di italiano alleato dei tedeschi, all’inizio, e in qualità di prigioniero dei tedeschi alla fine. Gli anglo-americani nel 1943 mi bombardarono la casa, e nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia e mi regalarono del latte condensato e della minestra in scatola.

Il suo diario sarà una raccolta di pensieri fatti nei lager, di cose lette, di momenti a loro stanti. Perché, secondo Guareschi, un diario descrittivo della vita nel lager avrebbe dovuto avere l’approvazione di tutti i prigionieri. Anche di quelli morti di stenti o ammazzati dai kapò. Essendo tale “approvazione” impossibile, ecco perché gli appunti sono stati in gran parte distrutti; l’ennesimo gesto nobile del nostro testardo scrittore che riteneva di aver conosciuto la vera “democrazia” solo nei lager. Gli IMI verranno rimandati a casa per ultimi, sempre perché facenti parte di una categoria non censita; con la gioia di essere sopravvissuti e la speranza di ritrovare i propri cari come bagaglio al seguito. E la consapevolezza  riassunta sempre da Guareschi :

(…) Non abbiamo vissuto come bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire. (…) Non pretendevamo aiuti materiali: ci sarebbe bastata una parola. Chi avrebbe potuto dirci questa parola, o la diceva cattiva o non la diceva.

E io non so cosa sia peggio. (continua)

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