Giovanni-Guareschi1

di DANILO COPPE – Il 26 maggio 1954 Giovannino Guareschi iniziò la sua lunga ed assurda detenzione, accusato, quale direttore editoriale, di non aver vigilato sui contenuti del suo giornale. Oggi, alla fine del 2013, circa sessant’anni dopo, la Corte Europea, da Strasburgo, ha sancito che non ci può essere la prigione per i giornalisti. Fosse ancora vivo, Giovannino potrebbe chiedere un risarcimento milionario. Siamo sicuri che se avesse potuto farlo avrebbe poi devoluto l’incasso in beneficenza. Dubito però, che uno Stato come il nostro, che dimostra di meritare sempre meno la S maiuscola, dopo aver messo un tetto di indennizzo ridicolo per l’ingiusta detenzione, si sarà anche attribuito un tempo brevissimo per la “prescrizione” riguardante le relative istanze. E qualcosa mi dice che tale prescrizione avrà oltre a termini estremamente brevi, anche ricchi di pastoie burocratiche pressoché insuperabili. Alla vigilia dell’incarceramento, Guareschi rispondeva gentilmente alla schiera infinita di amici che lo invitavano a trovare una soluzione, pur di non finire dietro alle sbarre. La risposta era diventata una tragicomica battuta: “Quest’anno di carcere è mio e nessuno provi a portarmelo via!”. Anche se poi i mesi diventarono 18. Ai giornalisti assiepati fuori dal carcere di S.Francesco fece un solo annuncio: “Entro con la certezza che le due lettere (di DeGasperi) da me pubblicate e che mi sono costate la galera, siano autentiche. Mi riprometto, appena uscito, di ripubblicarle. Se mi ricondanneranno ritornerò in carcere e attenderò di riacquistare la libertà per poter ripubblicare le lettere. La pletora di giornalisti lottizzati che avevano, negli anni, isolato Guareschi, ovviamente sciacallarono sulla vicenda, definendo la sua una carcerazione “allegra”, ossia ricca di privilegi. All’uscita dal carcere Giovannino dirà di aver trovato più umanità dalle SS durante la guerra che da tanti Italiani in tempo di pace. S. Francesco, infatti, era tutto fuorchè un prigione confortevole: freddo, umidità, cibo scadente e custodi durissimi accompagnarono la permanenza di Guareschi nella Cella 38, di circa cinque metri quadrati con vista su un muro. Come arredi un pagliericcio ed un secchio-latrina su cui il Nostro si affrettò ad incollare una foto di Scelba. Un mese di isolamento totale, manco fosse un pericoloso assassino. Subì ingiuste vessazioni di ogni tipo, con pressioni psicologiche inusitate. Unico privilegio fu quello di poter tenere il suo compagno di vita: un barattolone di bicarbonato per lenire gli effetti della sua grave ulcera. Solo dopo mesi gli fu concessa una macchina da scrivere e carta in abbondanza. In venti giorni scrisse “Don Camillo e l’onorevole Peppone” in due versioni: una che uscì segretamente dal carcere e l’altra edulcorata ad uso della rigida censura applicata da un direttore particolarmente burocrate. La censura del carcere era così asfissiante con la posta in entrata ed in uscita, che un giorno ricevette una lettera da casa che conteneva una foglia di magnolia; avevano timbrato con il “visto” anche la foglia stessa. Pagliacci! De Gasperi intanto era morto, dopo aver accordato una grazia a Guareschi legalmente inutile. Ma la sua morte bastò allo scrittore parmense per chiudere definitivamente la questione delle lettere. Tanto per dare l’idea del grado di persecuzione che aveva scatenato la libertà di pensiero di Guareschi: dopo dieci mesi di carcere era suo diritto avere la libertà condizionata per buona condotta. Ma l’ufficio ministeriale impiegò 100 giorni per ratificarla. E nel frattempo, alla sua casa editrice, la Rizzoli, fece visita la Tributaria, comminando una pena di oltre trecento milioni di lire dell’epoca. Il 4 luglio 1955 uscì dal carcere e per altri sei mesi dovette osservare le condizioni previste della libertà vigilata. Vorrei poter raccontare ai Lettori di Zerosette che, al termine di questo calvario, Giovannino Guareschi fosse tornato battagliero come prima, ma non posso. Chi l’ha conosciuto bene, biografi e pochi amici, lo descrivono come una persona segnata, dopo l’esperienza nel carcere di Parma. Durante la guerra i carcerieri parlavano una lingua diversa. Si era “puniti” in massa e questo poteva far sembrare “diluita” la pena. Ma a Parma i carcerieri erano Italiani. Chi l’aveva fatto rinchiudere era italiano. E fu lasciato davvero solo a scontare la pena. Inoltre, durante la guerra, il mondo sembrava essersi congelato in attesa della fine del conflitto. Non succedeva quasi nulla che non riguardasse le attività belliche. Ma durante la prigionia “nostrana” tutto viaggiava a grande velocità, facendo perdere a Guareschi tanti “capitoli” di vita potenziale. E’ probabile che Giovannino abbia avuto rimpianti per avere, con la sua caparbietà, perso anche un solo giorno di vita non dedicata ai figli, alla moglie, al suo Mondo piccolo. Nel 1954 era uscito il “Corrierino delle famiglie”, altro grande successo editoriale. Dopo il quale tentò, senza riuscirci, di sceneggiare la vita di Padre Lino. Ridusse sempre più la sua collaborazione con il Candido, che l’obbligava a sempre più sgradite trasferte a Milano, fino alle complete dimissioni, che portarono inevitabilmente alla chiusura stessa del glorioso settimanale, nell’ottobre del 1961. Due anni dopo uscì “Il Compagno Don Camillo”, cui seguirono tutti i film relativi alla saga di cui Guareschi non condivideva i tagli proditori nelle sceneggiature, orditi alla sue spalle da registi ed editore, troppo indulgenti verso i comportamenti da “trinariciuti” che emergevano nei libri. Nel frattempo, allo scrittore venne affibbiata furbescamente l’etichetta di “autore di destra” che si porterà dietro fino ai giorni nostri. Perseguitato indebitamente dal fisco, si dissanguò anche economicamente per aprire un ristorante ai figli. Dopo un avvisaglia di infarto nel 1962, iniziò ad ingrassare, per disfunzioni fisiche e per la vita sempre più da eremita. Riprese un po’ di entusiasmo lavorando al quotidiano La Notte, pubblicando raffiche di vignette con la solita forza satirica di un tempo. Guareschi si spense lentamente, sempre più misantropo, sempre più burbero. Scrisse un giorno: “Io sono come un merlo che zufola in alto, tra le fronde di un albero. Ma come posso sapere se chi passa sotto mi ascolta e riesce a capire ciò che zufolo?”. Nel 1968 morì, lasciando disposizioni di essere coperto da una bennata di sabbia del Po, portando nella bara un martello ed una bandiera sabauda, un tributo al padre ed uno alla madre Aveva ancora nelle tasche la prima scarpetta della figlia ed una crosta di parmigiano con il segno dei denti del figlio. Alla stampa in generale non sembrò vero di essersi liberata del suo esempio. E voi Lettori? Avete capito perché ho zufolato la storia di Guareschi?

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