Che sia sotto l’ombrellone o in qualsiasi altro luogo, in estate il tempo rallenta, o così almeno sembra, situazione ideale per prendere in mano un libro e conoscere una nuova storia, una di quelle storie che non ci ha mai raccontato nessuno. In questo secondo numero di luglio, ultimo dell’estate, Zerosette consiglia il romanzo “La logica dei lupi”, scritto da Cecilia Tanzi, avvocato parmigiano e dottore di ricerca in diritto sindacale e del lavoro. Il libro è stato presentato dalla stessa autrice presso il nuovo Bar alle porte di Parma “Felici e contenti”, con tanto di foto ricordo e copie autografate. Si tratta di un’opera edita da Demian Edizioni e articolata in 184 pagine, un lavoro studiato e realizzato in circa sette anni di sviluppi. È proprio Cecilia Tanzi a sottolineare il lungo periodo di scrittura, scusandosi soprattutto con i “characters” della storia per aver dovuto aspettare così a lungo prima di uscire allo scoperto. “Sette anni per scrivere un libro sono un’eternità. Chiedo scusa per questa lunga attesa ai miei personaggi e alla loro storia. Ma in questi sette anni molte volte sono stata sul punto di arrendermi, di abbandonare, di rinunciare a ciò che avete letto. Per colpa mia. Della mia vita. Se oggi la storia di Adele è qui, lo devo a mia madre. Che ringrazio dal più profondo e comunque mai abbastanza. Non ho cuore sufficiente per ringraziare chi, ferendomi, mi ha reso più forte. Benché questa storia sia pura invenzione, non pretendete troppo da me. Sono pur sempre un lupo.” Nel libro si narra la storia della protagonista (la quale riscoprirà il suo vero nome, Adele) che appartiene al “branco di lupi”, un branco che nonostante tutto rimane libero, pronto a prendersi cura di un passato dalle mille facce, ricco di finzioni, di colpe, di strategie e di amore. Come se fosse un film, non avrebbe senso svelare più del dovuto. L’autrice Cecilia Tanzi, studiosa e profonda conoscitrice della cultura post rivoluzionaria francese e della pittura europea tra il XIX e il XX secolo, non è nuova a fatiche letterarie di successo: nel 1999 ha vinto il premio Giovanni Guareschi con il racconto “16 minuti”. L’idea di interfacciarsi con una storia che ha rischiato di non esistere ci rende particolarmente curiosi e vale senza dubbio l’inizio di una nuova lettura. È un po’ come quel “C’è mancato poco che non succedesse mai” del film “La venticinquesima ora”.

Stefano Massari

 

Un assaggio del libro

“[…] Gli europei… non la finiranno mai con queste guerre.
E noi, che ce ne staremmo volentieri in pace, dobbiamo
correre sempre ad aiutarli. Mi domando il perché poi…
dovremmo lasciarli al loro destino e restarcene a casa
nostra, ecco cosa dovremmo fare”.
Quella grassa americana la ricordo bene.
Era un giorno di giugno, credo il 25. O forse il 23. Ma
non ha molta importanza.
La grassa americana si lamentava di continuo: degli
europei, del caldo, di Marsiglia, dello sporco, delle macerie,
della guerra.
Il numero del molo non lo ricordo, ma aspettavamo di
imbarcarci per Tangeri e della guerra potevo lamentarmi
anch’io.
Dopo l’otto maggio avevo creduto che finalmente tutto
fosse finito, pensavo che a poco a poco saremmo tornati
a vivere, avremmo lentamente ripreso le vecchie abitudini
e ricostruito ciò che era stato distrutto, fuori e dentro.
Ma era un’illusione: tutto era cambiato, noi eravamo
cambiati e niente e nessuno sarebbe stato come prima.
All’indomani della pace, proprio quando iniziavo ad
abituarmi all’idea, un amico mi disse che sarebbe stato
meglio se avessi cambiato aria per un po’, un anno, forse
due, giusto il tempo di normalizzare la situazione.
Era necessario: a quanto pareva ero accusata di aver
fatto fuggire un nemico…
Dapprima mi parlarono della Martinica, mi sembrava
dall’altra parte del mondo, poi Maurice disse che aveva un amico a Tangeri, un tizio che aveva aperto un locale alla moda e che avrebbe potuto darmi un lavoro.
Potevo scegliere perfino.
Scelsi Tangeri e quella sera di giugno, ora credo il 23
giugno 1945, ero a Marsiglia, al molo non ricordo il
numero, ad attendere l’imbarco accanto a quella grassa
americana vestita in modo troppo appariscente.
Potrei descriverla nei minimi dettagli, dal cappello a
tesa larga con svariati fiori di seta appoggiati, al vestito di
taffetà verde pistacchio, agli anelli che strizzavano dita
tozze come salsicce.
È incredibile come in certi momenti l’attenzione si
focalizzi su particolari insignificanti che restano poi
impressi in modo indelebile nella memoria; forse è una
sorta di rimozione preventiva, o di distrazione coatta: per
distogliere il pensiero da qualcosa che profondamente ci
disturba, fissiamo l’attenzione su cose stupide e del tutto
estranee a noi.
Detestavo l’idea di partire, forse avevo paura.
Non volevo lasciare il mio paese, in più odiavo il fatto
di dovermene andare di nascosto, in solitudine, quasi fossi
un’esule, o, peggio, una traditrice.
Ora mi rendo conto, signor Commissario, che sto divagando
e che non avrei dovuto partire da quella sera a raccontare
la mia storia, ma da prima.
Da prima che quell’orribile americana aprisse bocca,
quasi fosse l’unica a cui la guerra aveva procurato qualche
fastidio, da prima della “scelta” di Tangeri e dell’otto maggio, da prima perfino della guerra stessa.
Nel 1938 il mio nome era ancora Adele Oeben; ero
arrivata in Inghilterra dalla Normandia dove i miei genitori
avevano una proprietà vastissima: campi e bestiame a
perdita d’occhio.
Avrei voluto vivere a Parigi, ma mio padre voleva che
imparassi a conoscere il mondo, così, dopo la laurea, mi
mandò in Inghilterra da certi suoi cugini che avevano
aperto un ristorante; Londra non mi piaceva se non per i
musei: il clima era odioso, la gente poco comunicativa e
sarei ritornata a casa al più presto se non avessi conosciuto
Alfred.
Ci sposammo agli inizi del 1939: lui era l’unico figlio di
Lord Douglas, membro del Parlamento e ricco allevatore
di cavalli; Alfred sognava da tempo di andarsene per
cominciare una vita lontano dalla sua famiglia di origine,
con la quale aveva sempre avuto rapporti molto difficili ed io che desideravo più di ogni cosa Parigi ero la migliore
delle scuse.
Dopo discussioni estenuanti con il padre, decidemmo
di partire subito dopo l’estate.
Ma dopo l’estate non ci fu il tempo di partire perché
l’Inghilterra entrò in guerra e Alfred con lei.
Non saprei più descriverlo Alfred, intendo dire il suo
carattere; il suo viso, invece, è ancora chiaro, anche senza
il bisogno di ripassare qualche fotografia.
Aveva una bellezza ideale, da testolina di avorio ellenica;
i colori armoniosi, i lineamenti cesellati di una perfe zione irreale: Antinoo, Giacinto o Ganimede.
Mentre i pensieri, contorti come serpenti, la sua intelligenza,
viva ma instabile, ora mi sfuggono.
Lo ricordo, però, pieno di fascino e fuoco.
Aveva un perfetto accento berlinese, regalatogli dalla
madre tedesca – era una pianista che aleggiava con le mani
sui tasti come uno spirito – e questo lo fece finire non al
fronte, ma a spiare i tedeschi prima a Berlino e dopo l’occupazione della Francia, fra i boulevards di Parigi.
La notte prima della sua partenza la passammo a
festeggiare, come piaceva a noi: musica, champagne, locali
alla moda.
Mi diede un bracciale di brillanti e mi disse “Tornerò
presto oppure tu mi raggiungerai…”: lo fece con leggerezza,
come se si assentasse solo per qualche giorno, per
una cosa di poco conto. Ma da allora non lo rividi più.
Senza di lui non potevo sopportare Londra e me ne
andai in un posto che nessuno dei Douglas amava.
C’era la distanza e una costrizione al silenzio che mi
intrappolavano nel mio essere una sorta di vedova bianca:
nel confino dorato della loro tenuta di campagna nello
Yorkshire, le mie giornate trascorrevano indifferenti al
resto del mondo, nella spasmodica attesa che lui tornasse.
Il rumore dei passi nella galleria, il mio vestirmi come
se fossi in partenza o di ritorno da Londra ogni giorno, la
cura maniacale del giardino di inverno, il rossetto e le
unghie laccate erano tutti segni della mia impazienza irreale,
del mio volerlo lì ad ogni costo.
Fu una mattina dell’estate del 1941: erano da poco passate le nove ed io ero in giardino, sfogliavo il giornale con
una tazza di thè, forse c’erano dei croissants, mi sembra di ricordare qualche briciola (i soliti particolari insignificanti).
Nessun articolo sembrava diverso da quelli apparsi nei
giorni precedenti: la guerra appariva come un male cronico,
una sorta di peste da cui nessuno era immune e che
uccideva nelle città, ma restava nascosta, quasi in sordina,
nei giardini come il mio. Mi ci stavo abituando, Commissario: erano due anni ormai che non vedevo Alfred e sentivo giorno dopo giorno che la speranza si stava trasformando in un limbo che assorbiva i miei gesti rendendoli banali, che scoloriva il rosso della lacca per unghie e sbavava il più resistente dei rossetti.
Quella mattina, però, un colpo del destino cambiò il
giro delle carte: un incaricato del Ministero della guerra
venne a dirmi nel suo abito scuro di ordinanza che Alfred
era stato ucciso dal nemico; evidentemente qualcuno aveva
scoperto quello che in realtà faceva quel dandy berlinese.
Al funerale non c’era neppure il corpo, ma il padre
sembrava così orgoglioso per una volta e si confondeva
grigio fra i visi grigi degli uomini di stato.
In vendita su internet e in libreria

I miei ricordi di quei momenti non esistono: mi hanno
riferito che non piangevo, né mi disperavo, semplicemente
mi muovevo come una sonnambula, tenendomi in bilico
su una corda tesa, non parlavo con nessuno, non volevo
la compagnia di nessuno.
Accettavo soltanto il vecchio maggiordomo della tenuta,
Bishop e una cuoca francese, Angeline, che faceva anche
da domestica. […]”

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